Doppia materialità Philip Morris

Doppia materialità nativa con ESIndex®

Doppia materialità: sembra questa la grande scoperta per il futuro della sostenibilità. Ma siamo sicuri che sia una cosa così nuova?

La prima definizione

Il direttore scientifico di Exsulting, Robert B. Pojasek, PhD, professore all’università di Harvard, ha coniato ormai più di dieci anni orsono la definizione accademica di sostenibilità, usando la formulazione seguente:

La capacità di un’organizzazione di gestire in modo trasparente le sue responsabilità per la tutela dell’ambiente, la generazione di benessere sociale e la prosperità economica a lungo termine, rendendone conto in modo trasparente ai suoi stakeholder.

A guardar bene vi sono inclusi i tre pilastri della sostenibilità: ambiente, società, economia. People, Planet, Profit.

La deriva “green”

Negli anni in cui il tema della responsabilità sociale delle imprese e poi della sostenibilità è divenuto progressivamente più “trendy”, il focus si è spostato, nel discorso pubblico, sull’ambiente. Peggio ancora, su un termine generico e vuoto di significato: “green”. Green economy, green deal, prodotti green, aziende green… tutto è diventato green, e la sostenibilità si è trovata amputata di due gambe su tre.

In realtà, l’unico effetto della deriva green è stato di incrementare il greenwashing. Questo l’unico vero green in circolazione. Usare termini vaghi e parametri inconsistenti per definire la presunta sostenibilità di un prodotto o di un’azienda poteva generare solo confusione.

E nella confusione, tutto diventa indefinito. Di notte tutti i gatti son bigi, dice un vecchio proverbio. Nell’universo sfocato del “green” non si distingue chi fa per bene e chi imbroglia le carte.

ESG: si riscopre il sociale

Più recentemente ha avuto una rivincita la componente sociale della sostenibilità. Con difficoltà perché valutare l’impatto sociale di un’attività è molto difficile. Confrontarlo con realtà diverse da quelle prese in considerazione ancora di più. Già comprendere su quali aspetti social impatti l’attività di un’impresa, oppure quali aspetti sociali abbiamo effetti sull’impresa è complicato.

Però il recente successo dell’acronimo ESG (Environmental, Social, Governance) ha portato in alto l’attenzione sulla componente “S”. Vi sono diversi lodevoli tentativi di includere misurazioni degli impatti sociali. Non sarà facile trovare il modo, al di là della sempre validissima ISO 26000, ad avviso di chi scrive una linea guida insuperata. Anche per la sostenibilità, a leggerla con attenzione.

Il problema della “G”

La sostenibilità si è persa definitivamente quando è nato l’acronimo ESG a causa dell’ultima lettera: la “G”. Il termine “governance” è un termine vago, comprensivo di molti aspetti diversi dell’azienda. Anche se si può ricondurlo a una definizione sintetica: il modo in cui l’organizzazione è gestita. “Governata”, appunto. Ma cosa ha a che vedere questo con la sostenibilità, secondo la lucida definizione di Bob Pojasek?

Il primo slogan con cui si era presentata la visione di un modo di fare impresa diverso da quello di Friedman (solo profitti), People, Planet, Profit, era piuttosto chiaro. L’impresa deve agire in un modo che tenga responsabilmente conto delle persone, del pianeta e dei propri profitti. ambiente, società, valore economico. Le tre gambe dello sgabello c’erano tutte. E tutte si devono realizzare attraverso un governo dell’impresa che sia adeguato allo scopo.

Governance è troppo vago per coprire con precisione la generazione di valore economico da parte della sostenibilità. Da quando l’attenzione si è concentrata sul concetto di ESG è un fiorire di tentativi di definire meglio la sostenibilità. Di chiarire come debba essere rendicontata. Di creare strumenti che aiutino a capire se l’impresa è sostenibile anche dal punto di vista economico-finanziario.

Doppia materialità: si torna a casa

L’ultimo “uovo di Colombo” è il concetto di “doppia materialità”, adottato anche dalla nuova direttiva sulla rendicontazione di sostenibilità dell’Unione Europea: la direttiva (per ora proposta) CSRD. In vigore dal 2024, la nuova direttiva obbligherà un vasto numero di imprese europee a rendicontare sulla propria sostenibilità. Udite udite, dovranno farlo anche sulle implicazioni economico finanziarie della sostenibilità. Oltre che su quelle ambientali e sociali.

In pratica la doppia materialità è un ritorno alle origini: People, Planet, Profit. Oppure alla definizione del nostro Direttore Scientifico, il che è dire la stessa cosa. Non è detto esplicitamente nelle premesse alla CSRD. Tuttavia, crediamo che questa normativa abbia saggiamente rilevato come le attuali norme di rendicontazione fossero inadeguate a definire se veramente l’impresa era sostenibile nel lungo periodo.
Cioè esattamente capace di:

gestire in modo trasparente le sue responsabilità per la tutela dell’ambiente, la generazione di benessere sociale e la prosperità economica a lungo termine, rendendone conto in modo trasparente ai suoi stakeholder.

ESINdex®: doppia materialità da sempre

Sarà perché ESIndex® è stato creato da allievi di Bob Pojasek, sarà perché la sua definizione ci ha appagati dall’inizio. Di fatto, Embedded Sustainability Index®, già dalla sua genesi nel 2017, è nato con la chiarezza dei tre pilastri in mente.

Siamo stati consapevoli dall’inizio che l’impresa deve perseguire i propri obiettivi sociali e ambientali in parallelo a quelli economici. Altrimenti non durerà. Non sarà “sostenibile”, quantunque possa essere “green” o “ecofriendly”.

Per questo già dall’autovalutazione con ESIndex® hai un’idea di quanto copri la relazione bilaterale tra impresa e stakeholder, interni ed esterni. Chi impatta chi, e in che modo. Per divenire positivamente influenti l’uno sull’altro. Questo è l’obiettivo finale della sostenibilità aziendale. E questo ESIndex® lo ha perseguito dall’inizio.

Doppia materialità nativa

Perciò possiamo dire che ESIndex® è “Double Materiality Native”. Al momento di ricevere il rapporto di analisi sulla prima valutazione di ESIndex® l’impresa ha già una prima visione della materialità dai due punti di vista: impatti finanziari e non finanziari su di sé e sugli stakeholders.

E da lì può iniziare a disegnare una strategia di sostenibilità che sia completamente integrata agli obiettivi di business. E mettere in atto una governance che sia a ciò funzionale.

L’immagine di copertina è presa da QUI. Si tratta di un articolo di Eticanews che riporta come “best practice” di doppia materialità il caso Philip Morris. Ci è parso un approccio adeguato al tema della doppia materialità, anche se non è basato su ESIndex®. Ma quel che conta quando scriviamo un articolo su questo blog, per Exsulting, è fare informazione e cultura corretta sulla sostenibilità.

E siamo pronti a riconoscere una buona iniziativa anche quando non parte da noi.

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    Embedded Sustainability Index® è uno strumento di valutazione e supporto al progresso dell’Impresa verso la Sostenibilità e l’Economia Circolare.
    È basato su 36 fattori correlati agli standard internazionali più significativi per definire la capacità di un’Organizzazione di sviluppare con successo strategie di Sostenibilità Integrata.

    Doppia materialità: sembra questa la grande scoperta per il futuro della sostenibilità. Ma siamo sicuri che sia una cosa così nuova?

    La prima definizione

    Il direttore scientifico di Exsulting, Robert B. Pojasek, PhD, professore all’università di Harvard, ha coniato ormai più di dieci anni orsono la definizione accademica di sostenibilità, usando la formulazione seguente:

    La capacità di un’organizzazione di gestire in modo trasparente le sue responsabilità per la tutela dell’ambiente, la generazione di benessere sociale e la prosperità economica a lungo termine, rendendone conto in modo trasparente ai suoi stakeholder.

    A guardar bene vi sono inclusi i tre pilastri della sostenibilità: ambiente, società, economia. People, Planet, Profit.

    La deriva “green”

    Negli anni in cui il tema della responsabilità sociale delle imprese e poi della sostenibilità è divenuto progressivamente più “trendy”, il focus si è spostato, nel discorso pubblico, sull’ambiente. Peggio ancora, su un termine generico e vuoto di significato: “green”. Green economy, green deal, prodotti green, aziende green… tutto è diventato green, e la sostenibilità si è trovata amputata di due gambe su tre.

    In realtà, l’unico effetto della deriva green è stato di incrementare il greenwashing. Questo l’unico vero green in circolazione. Usare termini vaghi e parametri inconsistenti per definire la presunta sostenibilità di un prodotto o di un’azienda poteva generare solo confusione.

    E nella confusione, tutto diventa indefinito. Di notte tutti i gatti son bigi, dice un vecchio proverbio. Nell’universo sfocato del “green” non si distingue chi fa per bene e chi imbroglia le carte.

    ESG: si riscopre il sociale

    Più recentemente ha avuto una rivincita la componente sociale della sostenibilità. Con difficoltà perché valutare l’impatto sociale di un’attività è molto difficile. Confrontarlo con realtà diverse da quelle prese in considerazione ancora di più. Già comprendere su quali aspetti social impatti l’attività di un’impresa, oppure quali aspetti sociali abbiamo effetti sull’impresa è complicato.

    Però il recente successo dell’acronimo ESG (Environmental, Social, Governance) ha portato in alto l’attenzione sulla componente “S”. Vi sono diversi lodevoli tentativi di includere misurazioni degli impatti sociali. Non sarà facile trovare il modo, al di là della sempre validissima ISO 26000, ad avviso di chi scrive una linea guida insuperata. Anche per la sostenibilità, a leggerla con attenzione.

    Il problema della “G”

    La sostenibilità si è persa definitivamente quando è nato l’acronimo ESG a causa dell’ultima lettera: la “G”. Il termine “governance” è un termine vago, comprensivo di molti aspetti diversi dell’azienda. Anche se si può ricondurlo a una definizione sintetica: il modo in cui l’organizzazione è gestita. “Governata”, appunto. Ma cosa ha a che vedere questo con la sostenibilità, secondo la lucida definizione di Bob Pojasek?

    Il primo slogan con cui si era presentata la visione di un modo di fare impresa diverso da quello di Friedman (solo profitti), People, Planet, Profit, era piuttosto chiaro. L’impresa deve agire in un modo che tenga responsabilmente conto delle persone, del pianeta e dei propri profitti. ambiente, società, valore economico. Le tre gambe dello sgabello c’erano tutte. E tutte si devono realizzare attraverso un governo dell’impresa che sia adeguato allo scopo.

    Governance è troppo vago per coprire con precisione la generazione di valore economico da parte della sostenibilità. Da quando l’attenzione si è concentrata sul concetto di ESG è un fiorire di tentativi di definire meglio la sostenibilità. Di chiarire come debba essere rendicontata. Di creare strumenti che aiutino a capire se l’impresa è sostenibile anche dal punto di vista economico-finanziario.

    Doppia materialità: si torna a casa

    L’ultimo “uovo di Colombo” è il concetto di “doppia materialità”, adottato anche dalla nuova direttiva sulla rendicontazione di sostenibilità dell’Unione Europea: la direttiva (per ora proposta) CSRD. In vigore dal 2024, la nuova direttiva obbligherà un vasto numero di imprese europee a rendicontare sulla propria sostenibilità. Udite udite, dovranno farlo anche sulle implicazioni economico finanziarie della sostenibilità. Oltre che su quelle ambientali e sociali.

    In pratica la doppia materialità è un ritorno alle origini: People, Planet, Profit. Oppure alla definizione del nostro Direttore Scientifico, il che è dire la stessa cosa. Non è detto esplicitamente nelle premesse alla CSRD. Tuttavia, crediamo che questa normativa abbia saggiamente rilevato come le attuali norme di rendicontazione fossero inadeguate a definire se veramente l’impresa era sostenibile nel lungo periodo.
    Cioè esattamente capace di:

    gestire in modo trasparente le sue responsabilità per la tutela dell’ambiente, la generazione di benessere sociale e la prosperità economica a lungo termine, rendendone conto in modo trasparente ai suoi stakeholder.

    ESINdex®: doppia materialità da sempre

    Sarà perché ESIndex® è stato creato da allievi di Bob Pojasek, sarà perché la sua definizione ci ha appagati dall’inizio. Di fatto, Embedded Sustainability Index®, già dalla sua genesi nel 2017, è nato con la chiarezza dei tre pilastri in mente.

    Siamo stati consapevoli dall’inizio che l’impresa deve perseguire i propri obiettivi sociali e ambientali in parallelo a quelli economici. Altrimenti non durerà. Non sarà “sostenibile”, quantunque possa essere “green” o “ecofriendly”.

    Per questo già dall’autovalutazione con ESIndex® hai un’idea di quanto copri la relazione bilaterale tra impresa e stakeholder, interni ed esterni. Chi impatta chi, e in che modo. Per divenire positivamente influenti l’uno sull’altro. Questo è l’obiettivo finale della sostenibilità aziendale. E questo ESIndex® lo ha perseguito dall’inizio.

    Doppia materialità nativa

    Perciò possiamo dire che ESIndex® è “Double Materiality Native”. Al momento di ricevere il rapporto di analisi sulla prima valutazione di ESIndex® l’impresa ha già una prima visione della materialità dai due punti di vista: impatti finanziari e non finanziari su di sé e sugli stakeholders.

    E da lì può iniziare a disegnare una strategia di sostenibilità che sia completamente integrata agli obiettivi di business. E mettere in atto una governance che sia a ciò funzionale.

    L’immagine di copertina è presa da QUI. Si tratta di un articolo di Eticanews che riporta come “best practice” di doppia materialità il caso Philip Morris. Ci è parso un approccio adeguato al tema della doppia materialità, anche se non è basato su ESIndex®. Ma quel che conta quando scriviamo un articolo su questo blog, per Exsulting, è fare informazione e cultura corretta sulla sostenibilità.

    E siamo pronti a riconoscere una buona iniziativa anche quando non parte da noi.

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      È basato su 36 fattori correlati agli standard internazionali più significativi per definire la capacità di un’Organizzazione di sviluppare con successo strategie di Sostenibilità Integrata.