Il grande equivoco

Il grande equivoco della sostenibilità: “a noi non serve”

Il grande equivoco della sostenibilità, del quale non riusciamo ancora a liberarci, è che qualche imprenditore pensa ancora che non lo riguardi.

“A noi non serve”

Sembra incredibile, ma ancora nel 2022 ci sono manager e imprenditori che pensano che a loro “la sostenibilità non serve”. Come se ci potesse essere oggi qualcuno che può ignorare le sfide della contemporaneità. E continuare a fare impresa come si faceva negli anni ’30, o ’50, o anche ’90 del secolo scorso.

Ancora di recente un’imprenditore nel settore nel settore agrobusiness con cui ragionavo, ha affermato che alla loro azienda la sostenibilità non interessa perché “vendiamo solo sfuso e in grandi quantità”. Come dire: siamo un B2B dunque la sostenibilità non ci riguarda. Avrei potuto fermarmi lì, magari con l’orgoglio ferito per un rifiuto alla proposta di intraprendere un percorso di sostenibilità con il nostro aiuto. Sarebbe stato umano, comprensibile. Ma di quale utilità?

Invece sulle risposte, soprattutto su quelle negative, è fondamentale riflettere. E meditare. Non si può semplicemente supporre di essere gli unici che hanno capito tutto…

La responsabilità di consulenti e formatori

E allora la prima riflessione da fare è sulla responsabilità dei professionisti della sostenibilità nel fomentare il grande equivoco della sostenibilità.

La sostenibilità è un tema “caldo”, caldissimo. A fare consulenze di sostenibilità ci si sono buttati tutti. Così come gli enti di formazione si sono pure buttati sulla ghiotta torta, e oggi fioriscono i corsi per sustainability manager.  Ma siamo sicuri (domanda retorica) che questo non abbia annacquato il potenziale trasformativo della sostenibilità strategica e integrata?

Se la sostenibilità diventa fare una green capsule (il singolo prodotto “bandiera” di una casa di abbigliamento per dimostrarsi sostenibile quando in realtà il resto della produzione non lo è affatto), quali vantaggi reali ci possono essere per l’impresa?

L’impostazione prevalente  data dai professionisti della sostenibilità è stata fortemente orientata a favore dei prodotti B2C, come supporto al marketing. Da qui probabilmente la convinzione dell’imprenditore citato sopra.  Quando va “bene”, il focus è ambientale. Quando va male si tratta di dare una spalmata delle belle icone dei 17 SDG, che fanno sempre un bel vedere. Anche se con l’attività della singola impresa c’entrano abbastanza poco, almeno in modo diretto.

E il Sustainability Manager?

Premetto che come ogni generalizzazione anche questa ovviamente escluderà alcune lodevoli eccezioni. Tuttavia, ci pare che si sia messa un po’ troppo frettolosamente in campo una figura professionale che rappresenta profili di complessità enormi. E richiede un’esperienza molto solida e variegata, per poter abbracciare un tema sistemico e omnipervasivo come la sostenibilità.

A questo proposito debbo riportare una testimonianza, cui seguì poi un confronto diretto con la persona che mi aveva scritto. Si trattava di un top manager, di lunga esperienza, con cui in un’azienda precedente avevamo iniziato un fruttuoso percorso di sostenibilità strategica. Un percorso con orizzonti di anni e investimenti milionari. Scrivendomi, commentava la sua partecipazione a un corso per sustainability manager. Seguito presso un prestigioso istituto di formazione, con patrocinio di una prestigiosa associazione di manager. L’aveva fatto per curiosità, essendo molto interessato al tema.

Ecco come descriveva la sua esperienza. “Paghi, ti propinano un quiz on line, una sfilza di corsi video inutili, un colliquino con qualcuno che ne sa meno di te e il gioco è fatto… Sei un sustainability manager certificato. Boh non so.  Mi sa che la sostenibilità in Italia sta prendendo la piega della qualità negli anni 90.

Non posso che associarmi al “Boh”, pieno di domande, e continuare a riflettere.

Anche l’università a volte…

Memore della recente esperienza di selezione per un nuovo collaboratore devo condividere una sgradevole impressione. Nelle decine di curricula ricevuti ho scoperto l’esistenza di corsi di laurea dai nomi fantasiosi, e dai probabili intenti “acchiappa gonzi”. Lo so, è un giudizio, il che non andrebbe mai fatto sulle intenzioni altrui. Ma, fatta la doverosa ammenda, ho dovuto notare che alcuni di tali corsi mancavano proprio di concretezza, dando l’impressione di servire fondamentalmente a riciclare minestre vecchie in salsa “sviluppo sostenibile”, “circular economy”, “green management”, “politiche economiche per la sostenibilità” e così via.

Intendiamoci: non sono di quelli che guardano alla scuola o all’università come istituzioni che dovrebbero servire le aziende. Né essere orientate esclusivamente a far trovare un “posto di lavoro”. Tutt’altro.  Però diversi curricula che ho guardato presentavano combinazioni di esami stravaganti, del tutto inadatti all’ingresso in impresa come sustainability manager o in società di consulenza in tema.

Avendo lavorato come consulente di istituzioni internazionali ho potuto valutare che anche per avviare carriere in area politico-istituzionale-diplomatica erano inadatti. Non erano certo i corsi che fanno quanti mirano alla carriera diplomatica o di policy advisor. Ma questi giovani hanno dedicato anni, e decine di migliaia di euro, a conseguire una formazione che con la sostenibilità c’entra poco. E hanno grandi attese. Non so: non mi è piaciuto. E credo contribuisca al grande equivoco della sostenibilità.

La sfida: osare la strategia e l’integrazione

Diciamocelo chiaramente: vendere a un’impresa il servizio di trovargli argomenti da usare nella comunicazione per dire quanto sono green è facile. Costa poco e, finché dura il grande equivoco della sostenibilità può anche rendere abbastanza da darti da vivere.

Aiuterà l’impresa cliente in modo marginale. Soprattutto in contesti B2B, che sono la stragrande maggioranza dell’ecosistema in cui operano le imprese italiane. Ma si fa poca fatica, ed è più facile entrare “dolci” nell’impresa. In fondo non si tratta di chiedere grandi cambiamenti. Il management sta tranquillo: può tutto sommato andare avanti come prima, a fare quello che sa fare bene (nel mondo di ieri).

L’imprenditore, la proprietà, non sarà chiamato a fare grandi investimenti. Tutto scorrerà tranquillo… fino al baratro dell’incontro con la realtà. Lo scontro con un contesto che richiede tassativamente l’integrazione della sostenibilità nelle scelte aziendali. Tutte.

Un contesto in evoluzione

Infatti, il grande equivoco della sostenibilità ignora l’evoluzione del contesto. Senza andare troppo in dettaglio, è sufficiente leggere il Regolamento 852 del 2020 per capire che la sostenibilità è cosa molto seria. E per nulla facile da mettere in pratica.

Il Regolamento in sostanza dice che saranno favorite per gli investimenti attività cosiddette “ecosostenibili”. Definizione che non mi piace, ma tant’è. In ogni caso, per rientrare in una di queste categorie è necessario poter dimostrare che un’attività:

  1. contribuisce in modo sostanziale al raggiungimento di uno o più degli obiettivi ambientali di cui all’articolo 9, in conformità degli articoli da 10 a 16;
  2. non arreca un danno significativo a nessuno degli obiettivi ambientali di cui all’articolo 9, in conformità dell’articolo 17;
  3. è svolta nel rispetto delle garanzie minime di salvaguardia previste all’articolo18;
  4. è conforme ai criteri di vaglio tecnico fissati dalla Commissione ai sensi dell’articolo 10, paragrafo 3, dell’articolo 11, paragrafo 3, dell’articolo 12, paragrafo 2, dell’articolo 13, paragrafo 2, dell’articolo 14, paragrafo 2, o dell’articolo 15, paragrafo 2.

Cosa significa “saranno favorite” è presto detto: gli investitori avranno un incentivo decisivo a mettere i loro soldi nelle attività che rispecchiano questi criteri. Si tratta di uno strumento cogente di politica economica. Le attività che non rientreranno in questi criteri vedranno i propri costi crescere continuamente, fino a finire fuori mercato.

Gli obiettivi ambientali del regolamento 852

Vediamo un po’ di cosa si tratta quando parliamo dei requisiti, soffermandoci soltanto su quelli ambientali. Semplifichiamoci la vita. Sono già abbastanza impegnativi. Gli obiettivi cui si deve dimostrare di dare un “contributo significativo” sono:

  1. mitigazione dei cambiamenti climatici;
  2. adattamento ai cambiamenti climatici;
  3. uso sostenibile e la protezione delle acque e delle risorse marine;
  4. transizione verso un’economia circolare;
  5. prevenzione e la riduzione dell’inquinamento;
  6. protezione e ripristino della biodiversità e degli ecosistemi.

Ora, assicurare che l’attività dell’impresa rientri nella categorie predette è tutt’altro che semplice. Soprattutto farcela rientrare nel caso che la sua attività fosse molto distante da questi obiettivi.

Aiutare un’impresa in questa sfida significa assumere una responsabilità molto grande. Significa impegnarsi a facilitare processi innovativi equilibrati. Sostenibilità è tutt’altro che “buonismo ambientale”. È eccellenza nella conciliazione di interessi che possono contrastare in modo molto forte.

Le tre gambe della sostenibilità

Si, ricordiamole ancora una volta, perché parte del grande equivoco della sostenibilità è proprio dimenticare di tener presente gli aspetti finanziari e sociali, accanto a quello ambientale. Ciò che accade a gran parte del discorso sulla sostenibilità. Equivoco aggravato dall’uso generalizzato dell’acronimo ESG (Environmental Social Governance). In questo concetto, infatti, manca il senso del contributo economico che la sostenibilità ben fatta porta al risultato dell’impresa.

Per proseguire nella propria attività in modo profittevole nel lungo periodo, un’impresa deve oggi assicurarsi di corrispondere ai requisiti di cui al Reg. 852/2020. E deve farlo mantenendo un’adeguata redditività, considerando l’impatto e le aspettative di una ampia galassia di stakeholders.

Questa è la sfida. Questo è il cammino sul quale i  professionisti della sostenibilità devono impegnarsi ad accompagnare le aziende.

L’orizzonte è la decarbonizzazione

Per superare una volta per tutte il grande equivoco della sostenibilità, dobbiamo ricordare che oggi l’orizzonte è la decarbonizzazione delle attività. Ma sul serio! Non basta la green capsule, che ormai ha mille forme per mille attività differenti. Greenwashing su misura, praticamente.

Assistere un’impresa sulla strada della decarbonizzazione, in una fase storica nella quale ancora la gran parte delle attività umane è pesantemente C-intensive, richiede grande visione. E solide competenze sulla gestione sistemica della complessità. Oltre a una notevole esperienza in campi diversi, per essere in grado di “collegare i punti” dei tanti dilemmi che si presenteranno nella fase di transizione. Ad esempio innovando i business model.

Non credo affatto basti un corso, per quanto ben fatto a differenza di quello pur prestigioso frequentato dal manager sopra citato, a creare questa professionalità. Torniamo a valorizzare le competenze, ma soprattutto lavoriamo sulla cultura profonda aziendale, a partire da quella dei CEO e degli imprenditori.

Bottega della sostenibilità®: una risposta

Proprio sul cambiamento culturale investe Exsulting, per superare il grande equivoco della sostenibilità. Da questa esigenza nasce la Bottega della Sostenibilità®, i l nuovo grande progetto di Exsulting per imprenditori visionari. O che vogliono diventarlo.

Negli “incontri a Bottega”, offriamo ai nostri clienti dei servizi strategici la possibilità di un confronto schietto, concreto tra pari con la disponibilità dei massimi esperti dei temi chiave della transizione alla sostenibilità. I partecipanti ne escono con idee pratiche, progetti e spunti da applicare immediatamente in impresa.

E può formarsi nel tempo una rete di contatti, partnership, collaborazioni di alto livello che rende le imprese più adatte a navigare in sicurezza il tempo presente. Preparandosi al futuro con maggior solidità dei loro concorrenti, e con un’accresciuta capacità di generare valore.

Bottega è un servizio riservato ai nostri clienti dei servizi strategici (ESIndex®, CAI© (Company Adjusted Index©)© e SGIS© (Sistema di Gestione Integrata della Sostenibilità)©. Tuttavia, anche i non clienti possono partecipare una volta, per conscere il modo in cui si lavora a Bottega, e l’approccio di Exsulting alla sostenibilità strategica e integrata.

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Il grande equivoco della sostenibilità, del quale non riusciamo ancora a liberarci, è che qualche imprenditore pensa ancora che non lo riguardi.

“A noi non serve”

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Ancora di recente un’imprenditore nel settore nel settore agrobusiness con cui ragionavo, ha affermato che alla loro azienda la sostenibilità non interessa perché “vendiamo solo sfuso e in grandi quantità”. Come dire: siamo un B2B dunque la sostenibilità non ci riguarda. Avrei potuto fermarmi lì, magari con l’orgoglio ferito per un rifiuto alla proposta di intraprendere un percorso di sostenibilità con il nostro aiuto. Sarebbe stato umano, comprensibile. Ma di quale utilità?

Invece sulle risposte, soprattutto su quelle negative, è fondamentale riflettere. E meditare. Non si può semplicemente supporre di essere gli unici che hanno capito tutto…

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E allora la prima riflessione da fare è sulla responsabilità dei professionisti della sostenibilità nel fomentare il grande equivoco della sostenibilità.

La sostenibilità è un tema “caldo”, caldissimo. A fare consulenze di sostenibilità ci si sono buttati tutti. Così come gli enti di formazione si sono pure buttati sulla ghiotta torta, e oggi fioriscono i corsi per sustainability manager.  Ma siamo sicuri (domanda retorica) che questo non abbia annacquato il potenziale trasformativo della sostenibilità strategica e integrata?

Se la sostenibilità diventa fare una green capsule (il singolo prodotto “bandiera” di una casa di abbigliamento per dimostrarsi sostenibile quando in realtà il resto della produzione non lo è affatto), quali vantaggi reali ci possono essere per l’impresa?

L’impostazione prevalente  data dai professionisti della sostenibilità è stata fortemente orientata a favore dei prodotti B2C, come supporto al marketing. Da qui probabilmente la convinzione dell’imprenditore citato sopra.  Quando va “bene”, il focus è ambientale. Quando va male si tratta di dare una spalmata delle belle icone dei 17 SDG, che fanno sempre un bel vedere. Anche se con l’attività della singola impresa c’entrano abbastanza poco, almeno in modo diretto.

E il Sustainability Manager?

Premetto che come ogni generalizzazione anche questa ovviamente escluderà alcune lodevoli eccezioni. Tuttavia, ci pare che si sia messa un po’ troppo frettolosamente in campo una figura professionale che rappresenta profili di complessità enormi. E richiede un’esperienza molto solida e variegata, per poter abbracciare un tema sistemico e omnipervasivo come la sostenibilità.

A questo proposito debbo riportare una testimonianza, cui seguì poi un confronto diretto con la persona che mi aveva scritto. Si trattava di un top manager, di lunga esperienza, con cui in un’azienda precedente avevamo iniziato un fruttuoso percorso di sostenibilità strategica. Un percorso con orizzonti di anni e investimenti milionari. Scrivendomi, commentava la sua partecipazione a un corso per sustainability manager. Seguito presso un prestigioso istituto di formazione, con patrocinio di una prestigiosa associazione di manager. L’aveva fatto per curiosità, essendo molto interessato al tema.

Ecco come descriveva la sua esperienza. “Paghi, ti propinano un quiz on line, una sfilza di corsi video inutili, un colliquino con qualcuno che ne sa meno di te e il gioco è fatto… Sei un sustainability manager certificato. Boh non so.  Mi sa che la sostenibilità in Italia sta prendendo la piega della qualità negli anni 90.

Non posso che associarmi al “Boh”, pieno di domande, e continuare a riflettere.

Anche l’università a volte…

Memore della recente esperienza di selezione per un nuovo collaboratore devo condividere una sgradevole impressione. Nelle decine di curricula ricevuti ho scoperto l’esistenza di corsi di laurea dai nomi fantasiosi, e dai probabili intenti “acchiappa gonzi”. Lo so, è un giudizio, il che non andrebbe mai fatto sulle intenzioni altrui. Ma, fatta la doverosa ammenda, ho dovuto notare che alcuni di tali corsi mancavano proprio di concretezza, dando l’impressione di servire fondamentalmente a riciclare minestre vecchie in salsa “sviluppo sostenibile”, “circular economy”, “green management”, “politiche economiche per la sostenibilità” e così via.

Intendiamoci: non sono di quelli che guardano alla scuola o all’università come istituzioni che dovrebbero servire le aziende. Né essere orientate esclusivamente a far trovare un “posto di lavoro”. Tutt’altro.  Però diversi curricula che ho guardato presentavano combinazioni di esami stravaganti, del tutto inadatti all’ingresso in impresa come sustainability manager o in società di consulenza in tema.

Avendo lavorato come consulente di istituzioni internazionali ho potuto valutare che anche per avviare carriere in area politico-istituzionale-diplomatica erano inadatti. Non erano certo i corsi che fanno quanti mirano alla carriera diplomatica o di policy advisor. Ma questi giovani hanno dedicato anni, e decine di migliaia di euro, a conseguire una formazione che con la sostenibilità c’entra poco. E hanno grandi attese. Non so: non mi è piaciuto. E credo contribuisca al grande equivoco della sostenibilità.

La sfida: osare la strategia e l’integrazione

Diciamocelo chiaramente: vendere a un’impresa il servizio di trovargli argomenti da usare nella comunicazione per dire quanto sono green è facile. Costa poco e, finché dura il grande equivoco della sostenibilità può anche rendere abbastanza da darti da vivere.

Aiuterà l’impresa cliente in modo marginale. Soprattutto in contesti B2B, che sono la stragrande maggioranza dell’ecosistema in cui operano le imprese italiane. Ma si fa poca fatica, ed è più facile entrare “dolci” nell’impresa. In fondo non si tratta di chiedere grandi cambiamenti. Il management sta tranquillo: può tutto sommato andare avanti come prima, a fare quello che sa fare bene (nel mondo di ieri).

L’imprenditore, la proprietà, non sarà chiamato a fare grandi investimenti. Tutto scorrerà tranquillo… fino al baratro dell’incontro con la realtà. Lo scontro con un contesto che richiede tassativamente l’integrazione della sostenibilità nelle scelte aziendali. Tutte.

Un contesto in evoluzione

Infatti, il grande equivoco della sostenibilità ignora l’evoluzione del contesto. Senza andare troppo in dettaglio, è sufficiente leggere il Regolamento 852 del 2020 per capire che la sostenibilità è cosa molto seria. E per nulla facile da mettere in pratica.

Il Regolamento in sostanza dice che saranno favorite per gli investimenti attività cosiddette “ecosostenibili”. Definizione che non mi piace, ma tant’è. In ogni caso, per rientrare in una di queste categorie è necessario poter dimostrare che un’attività:

  1. contribuisce in modo sostanziale al raggiungimento di uno o più degli obiettivi ambientali di cui all’articolo 9, in conformità degli articoli da 10 a 16;
  2. non arreca un danno significativo a nessuno degli obiettivi ambientali di cui all’articolo 9, in conformità dell’articolo 17;
  3. è svolta nel rispetto delle garanzie minime di salvaguardia previste all’articolo18;
  4. è conforme ai criteri di vaglio tecnico fissati dalla Commissione ai sensi dell’articolo 10, paragrafo 3, dell’articolo 11, paragrafo 3, dell’articolo 12, paragrafo 2, dell’articolo 13, paragrafo 2, dell’articolo 14, paragrafo 2, o dell’articolo 15, paragrafo 2.

Cosa significa “saranno favorite” è presto detto: gli investitori avranno un incentivo decisivo a mettere i loro soldi nelle attività che rispecchiano questi criteri. Si tratta di uno strumento cogente di politica economica. Le attività che non rientreranno in questi criteri vedranno i propri costi crescere continuamente, fino a finire fuori mercato.

Gli obiettivi ambientali del regolamento 852

Vediamo un po’ di cosa si tratta quando parliamo dei requisiti, soffermandoci soltanto su quelli ambientali. Semplifichiamoci la vita. Sono già abbastanza impegnativi. Gli obiettivi cui si deve dimostrare di dare un “contributo significativo” sono:

  1. mitigazione dei cambiamenti climatici;
  2. adattamento ai cambiamenti climatici;
  3. uso sostenibile e la protezione delle acque e delle risorse marine;
  4. transizione verso un’economia circolare;
  5. prevenzione e la riduzione dell’inquinamento;
  6. protezione e ripristino della biodiversità e degli ecosistemi.

Ora, assicurare che l’attività dell’impresa rientri nella categorie predette è tutt’altro che semplice. Soprattutto farcela rientrare nel caso che la sua attività fosse molto distante da questi obiettivi.

Aiutare un’impresa in questa sfida significa assumere una responsabilità molto grande. Significa impegnarsi a facilitare processi innovativi equilibrati. Sostenibilità è tutt’altro che “buonismo ambientale”. È eccellenza nella conciliazione di interessi che possono contrastare in modo molto forte.

Le tre gambe della sostenibilità

Si, ricordiamole ancora una volta, perché parte del grande equivoco della sostenibilità è proprio dimenticare di tener presente gli aspetti finanziari e sociali, accanto a quello ambientale. Ciò che accade a gran parte del discorso sulla sostenibilità. Equivoco aggravato dall’uso generalizzato dell’acronimo ESG (Environmental Social Governance). In questo concetto, infatti, manca il senso del contributo economico che la sostenibilità ben fatta porta al risultato dell’impresa.

Per proseguire nella propria attività in modo profittevole nel lungo periodo, un’impresa deve oggi assicurarsi di corrispondere ai requisiti di cui al Reg. 852/2020. E deve farlo mantenendo un’adeguata redditività, considerando l’impatto e le aspettative di una ampia galassia di stakeholders.

Questa è la sfida. Questo è il cammino sul quale i  professionisti della sostenibilità devono impegnarsi ad accompagnare le aziende.

L’orizzonte è la decarbonizzazione

Per superare una volta per tutte il grande equivoco della sostenibilità, dobbiamo ricordare che oggi l’orizzonte è la decarbonizzazione delle attività. Ma sul serio! Non basta la green capsule, che ormai ha mille forme per mille attività differenti. Greenwashing su misura, praticamente.

Assistere un’impresa sulla strada della decarbonizzazione, in una fase storica nella quale ancora la gran parte delle attività umane è pesantemente C-intensive, richiede grande visione. E solide competenze sulla gestione sistemica della complessità. Oltre a una notevole esperienza in campi diversi, per essere in grado di “collegare i punti” dei tanti dilemmi che si presenteranno nella fase di transizione. Ad esempio innovando i business model.

Non credo affatto basti un corso, per quanto ben fatto a differenza di quello pur prestigioso frequentato dal manager sopra citato, a creare questa professionalità. Torniamo a valorizzare le competenze, ma soprattutto lavoriamo sulla cultura profonda aziendale, a partire da quella dei CEO e degli imprenditori.

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Proprio sul cambiamento culturale investe Exsulting, per superare il grande equivoco della sostenibilità. Da questa esigenza nasce la Bottega della Sostenibilità®, i l nuovo grande progetto di Exsulting per imprenditori visionari. O che vogliono diventarlo.

Negli “incontri a Bottega”, offriamo ai nostri clienti dei servizi strategici la possibilità di un confronto schietto, concreto tra pari con la disponibilità dei massimi esperti dei temi chiave della transizione alla sostenibilità. I partecipanti ne escono con idee pratiche, progetti e spunti da applicare immediatamente in impresa.

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